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L' uomo che non credeva in Dio

Scalfari Eugenio


Editeur - Casa editrice

Einaudi






Città - Town - Ville

Torino

Anno - Date de Parution

2008

Pagine - Pages

150

Titolo originale

L' uomo che non credeva in Dio

Lingua originale

Lingua - language - langue

italiano

Edizione - Collana

Supercoralli


L' uomo che non credeva in Dio L' uomo che non credeva in Dio  

Con questo libro Eugenio Scalfari abbraccia l'avventura della sua esistenza: a partire dalla stagione magica dell'infanzia, passando per gli anni di formazione (la scoperta della filosofia al liceo di Sanremo, compagno di banco l'amico Italo Calvino), fino all'impegno giornalistico, che dura da oltre sessantacinque anni, per arrivare al tempo lungo della vecchiaia. Ma Scalfari non si accontenta di rammemorare, nel suo libro ogni ricordo vive e perdura in funzione di una continua tensione etica e intellettuale. Egli non entra nelle varie stanze della memoria, se prima non è certo di intravedere dalla soglia il bagliore di un fuoco razionale che possa ampliare il dato autobiografico, fino a farsi meditazione sulla vita, sui valori di ogni gesto compiuto. Ripensarsi bambino, vestito da Ballila ad ascoltare il duce da Palazzo Venezia, lo costringe a fare i conti con l'intossicazione del virus ideologico del fascismo. Poi si osserva adolescente entrare nella gabbia dell'Io, con indosso quella maschera che toglie l'innocenza; e nei due anni passati nella campagna calabrese, in fuga da Roma occupata dai tedeschi ("dopo otto mesi di pena, clandestinità e fame nera"), scopre la possibilità di un oblio di sé, imparando dal padre ad ascoltare "la voce degli alberi". Oppure si interroga su morale e politica, ricordando la figura di Enrico Berlinguer o quella volta che in un bar della Maremma Ugo La Malfa associò il fare della politica con l'arte di giocare di sponda a biliardo.

 



Recensione in lingua italiana

Corriere della Sera 4.5.08
Il saggio In libreria «L'uomo che non credeva in Dio», nuova opera del fondatore di «Repubblica»
I temi «Il volume è una ricerca dei nessi che ci sono tra la vita e i pensieri. Non un racconto di fatti»
I dubbi, la ricerca, la fede Scalfari indaga se stesso
Un'autobiografia come strumento di conoscenza del mondo «Il titolo, con il verbo all'imperfetto, lascia aperta la conclusione»
dialogo tra Claudio Magris ed Eugenio Scalfari


«Io sono Kim», dice il protagonista del celebre romanzo omonimo di Kipling, ma subito aggiunge: «Chi è Kim?». Il pronome personale sembra la realtà più ovvia e indiscutibile e si rivela invece la più precaria; «conosci te stesso» - chi conosce chi? Non è solo l'altissima inquietudine religiosa di Agostino a porre questa radicale domanda, talvolta basta un piccolo dolore fisico a scompaginare il nostro io: un dente che d'improvviso fa male e che sino a un attimo prima era parte di noi, era noi, si rivela estraneo e nemico, qualcosa di nostro contro di noi. È la continuità a venir messa in dubbio, l'identità dell'io di ieri con quello di oggi. Soprattutto l'io che scrive si rivela un altro, come voleva Rimbaud: «Di chi è questa voce spaventosa? » si chiede, in un racconto di Hoffmann, un poeta rileggendo una propria poesia.
Chi ha scritto L'uomo che non credeva in Dio,
questa singolare autobiografia classicamente composta e possente nella sua classica scrittura, che tuttavia indaga inquieta il suo tessuto, quasi per disfarlo, come il lavoro notturno di Penelope? L'ha scritto certo chi la firma, ovvero un protagonista di primo piano, da decenni, del giornalismo e della politica italiana, il quale imprime così un sigillo di saggezza alle sue battaglie e avventure giornalistiche, editoriali, politiche, culturali, che hanno fatto di lui una figura centrale, ammirata celebrata invidiata temuta amata odiata, della vita nazionale. Maestro nel capire e indirizzare il caotico, ambiguo ed effimero polverio quotidiano che prende forma nelle pagine del giornale e negli eventi pubblici, questo io narrante si rivolge qui invece al senso e allo sgomento di ciò che trascende il tempo. Ma questo io più profondo che si pone in dubbio è solidale con quello socialmente, politicamente, culturalmente vittorioso che porta il nome di Eugenio Scalfari? Gli aggiunge una valenza spirituale, una dignità di saggio, oppure gli sfugge, lo inquieta, lo mette in imbarazzo, come un bambino o un ragazzo malizioso, non troppo convinto di essere cresciuto? Il vero io che scrive questo libro di Scalfari è anche in conflitto con lui; i guizzi e gli affondi della sua scrittura recalcitrano a quella ben diversa scrittura «professionale… funzionale, utilitaria» del giornalista e scrittore politico Eugenio Scalfari, come aveva detto egli stesso nel suo Incontro con Io.
Ma cominciamo banalmente dal «chi è» del titolo. All'inizio, prima di leggere il libro, mi aveva un po' infastidito e mi sembrava strano che un autore, il quale nel Labirinto aveva scritto pagine di serenità classica, lucreziana sul rapporto fra l'io e i suoi elementi in cui è destinato a dissolversi tornando nel grande fluire di tutte le cose, potesse indulgere a una muscolosa ostentazione di quell'ateismo fondamentalista oggi così diffuso e speculare alla pacchiana religioseria altrettanto diffusa. Infatti nel tuo libro non ce n'è traccia. Esso è improntato, nella sostanza e nella forma — che sono poi la stessa cosa — al rispetto, che per Kant è la premessa di tutte le virtù; rispetto per le fedi, i dubbi, i sentimenti, gli errori, la ricerca di verità, la vita. È questo il senso poetico del libro.
Fondatore di giornali e, credo, restio a pregare, non accetti la tesi di Hegel secondo cui nel mondo contemporaneo la lettura del giornale del mattino ha sostituito la preghiera del mattino quale contatto con l'universale. Si può allora intendere il titolo del libro come un autoironico understatement, un io che si interroga su se stesso e scopre di potersi definire solo per sottrazione, dicendo ciò che non è, che non sa, ciò in cui non riesce a credere?
SCALFARI — Ti dirò che è stata, per me e per il mio editore, una scelta pensata a lungo. Ce n'erano altri in alternativa. Uno era, molto semplicemente,
La mia vita, i miei pensieri. L'abbiamo scartato perché ci sembrava piatto, puramente dichiarativo. Un titolo, che sia quello d'un articolo di giornale o d'un libro, deve cantare, deve avere uno spessore musicale, una sua metrica e una sua risonanza. Io poi, per ragioni professionali, di titoli ne ho fatti tanti e quindi conosco la forma estetica che debbono avere.
Un'altra ipotesi è stata La gabbia dell'io che è il titolo di uno dei capitoli. Questo cantava abbastanza, a me sembrava efficace, ma alla fine concludemmo che era troppo filosofico, mentre il mio non è un testo di filosofia o di psicologia. Un altro che a me piaceva molto era Le stelle danzanti,
una frase di Nietzsche che cito e che ha una forza poetica notevole. Forse troppo poetica e poco significativa. Così, alla fine, siamo approdati al titolo attuale.
Ma tu mi hai posto un'altra questione. Mi hai chiesto se questo titolo dia conto di un io (il mio) che s'interroga su se stesso e «scopre di potersi definire solo per sottrazione. dicendo ciò che non è». Probabilmente hai ragione. Del resto l'identità di un qualsiasi soggetto si può definire sia in positivo sia per sottrazione. La luce non è la tenebra, il bene non è il male, la vita non è la morte e viceversa. Se si vuole, questo modo di definire un ente e la sua soggettività è alla base di qualsiasi dialettica. Aggiungo che L'uomo che non credeva in Dio accenna, con quel verbo all'imperfetto, al passato, ad un racconto, ad una biografia e in effetti è uno degli elementi costitutivi del libro. E lascia un dubbio sulla conclusione. Ecco le ragioni della scelta.
MAGRIS — Il libro è un'originale e freschissima mescolanza di intimo vissuto personale, vicende storico-politiche e domande filosofiche nate per necessità da quelle esperienze; i paesaggi o i rosari dell'infanzia, la fondazione e direzione di
Repubblica e dell'Espresso, gli interrogativi sul senso del vivere. L'attenzione si concentra non sugli affetti fondamentali, concentrati in poche righe, quanto su dettagli apparentemente minima-li, un odore di infanzia o un colore piuttosto che una storia d'amore. D'altronde anche le esperienze pubbliche, così rilevanti, sono ricordate nei nudi elementi essenziali, quali dati di una biografia. Si tratta di pudore? Perché non ripercorrere i momenti più duri, forti, fatti di audacia, fatalmente anche di errori e contraddizioni, del tuo agire, dei giornali che hai fondato e diretto, della politica per la quale o contro la quale hai combattuto?
SCALFARI — Certamente c'è stato anche un sentimento di pudore, ma la vera ragione di questa scelta è un'altra. Non volevo scrivere e infatti non ho scritto un'autobiografia; mi è stato parecchie volte proposto di farlo ma ho sempre rifiutato. Non mi ritengo così importante da dover raccontare i miei tanti incontri con le più varie personalità della vita politica, economica e culturale italiana e anche internazionale in un lungo arco di sessant'anni. Sono un po' narcisista come del resto lo sono tutti i viventi, ciascuno dei quali si sente il centro del mondo come pure ho scritto in questo mio libro; narcisista quel tanto che è inevitabile ma non fino al punto di tediare me stesso e gli altri raccontandomi.
Questo libro è una ricerca dei nessi che ci sono tra la vita e i pensieri. Il mio vissuto personale e i suoi rapporti con i miei pensieri costituiscono quindi un materiale documentario. Nessuno meglio di te sa che per uno scrittore l'impegno più difficile sul quale si gioca la qualità dell'opera è costituito da uno stile, da una tonalità, quello che nella musica è rappresentato dalla chiave musicale e dalle scelte tematiche. Una messa in do maggiore non è la stessa che si può scrivere in re minore. La chiave musicale di queste mie pagine è una sorta di «toccata e fuga». Se mi fossi indugiato oltre il necessario a raccontare i fatti della mia vita oppure a tentare una sistematizzazione di alcuni principi filosofici in forma quasi di trattato o di manuale, avrei scritto una cosa diversa e probabilmente non adatta a me né, credo, ai miei lettori.
Del resto, dopo Nietzsche non è più possibile scrivere trattati di filosofia. L'autore di Zarathustra
è stato un grande filosofo moderno proprio perché ha rotto completamente con la trattatistica e la sistematica, perché al tempo stesso ha coltivato un pensiero profetico, immagini e delicatezze poetiche, trasporti mistici, ispirazioni melodiche. Insomma un artista e insieme un pensatore.
Alcuni filosofi venuti dopo di lui hanno avuto forse pensieri più compatti e hanno tentato di nuovo le strade della trattatistica e della sistematica, ma erano fuori tempo. La filosofia ha bisogno d'un linguaggio. Quello dei filosofi post-nietzscheani si è rivelato inadeguato, oscuro, noioso, poco comprensibile, gergale. Proust e Kafka hanno aperto scenari di vera e propria conoscenza filosofica molto più vasti di Heidegger e di Levinas. Il Socrate moribondo del Fedone e le pagine dell'Ecce Homo valgono assai più di qualche dissertazione ontologica. Perciò ho cercato di parlare per frammenti. Potrà piacere oppure no ma questa è la chiave, la cifra di questo mio lavoro.
MAGRIS — Pur non avendo nel libro il ruolo che ha nella tua vita, la politica è presente. Tracciando giustamente la distinzione fra politica e morale — anche, in una pagina forte e fulminea, all'interno della stessa persona — a un certo punto dici che il fondamento della politica non è la morale, il bene comune, bensì la pura volontà di potenza nietzscheana. Eppure, parlando di alcuni politici — La Malfa, il gruppo del Mondo e altri — li ammiri perché hanno saputo trasferire nelle forme e nei modi della politica un valore morale. Non si potrebbe allora dire, con Max Weber, che il conflitto non è fra politica e morale bensì fra l'etica della convinzione, che a nessun costo accetta di violare i propri valori, e l'etica della responsabilità — quella della politica — la quale pensa anche e soprattutto alle conseguenze dei propri atti e può dunque trovarsi dinanzi alla tragica necessità di transigere sui propri valori, ma non in nome della volontà di potenza, bensì del bene comune e dunque sempre di un valore morale?
SCALFARI — Non starò a citare il Machiavelli né Vico. Citerò invece Benedetto Croce che è stato il mio primo maestro di filosofia. Da un pezzo ho abbandonato lo storicismo crociano ma alcune delle sue intuizioni si sono sedimentate nel mio modo di intendere la dialettica.
Parlando della vita pratica, cioè dell'agire concreto sulla realtà esterna, Croce distingue il momento economico che persegue l'utilità (la felicità?) del soggetto dal momento morale che persegue il bene comune. E dice che il secondo momento (quello del bene comune) contiene sempre inevitabilmente il momento utilitario. Per Kant la morale non è tale se c'è in essa una sola scheggia di utilità propria; per Croce al contrario non si dà alcuna azione, neanche la più morale e disinteressata, che non rechi felicità e piacere a chi la compie. Perfino l'azione eroica che può condurci alla morte per un ideale, perfino il nostro sacrificio compiuto a beneficio di altri, lo si compie perché ci gratifica. L'esempio massimo può esser indicato in Gesù di Nazareth, che sia visto come il figlio dell'Uomo animato da spirito profetico o come figlio di Dio che assume spoglie umane e umani sentimenti. Quando Gesù, nel giardino del Getsemani, si trova di fronte al compimento della sua missione, all'arresto, al processo e all'inevitabile martirio che culminerà nella crocefissione, egli è colto da tremore e invoca il Padre chiedendogli di allontanare da lui il calice della sofferenza. «Si stese in terra e invocò il Padre. Se tu vuoi allontana da me quel calice, ma se non vuoi sia fatta la tua volontà». Che cosa significa questo passo capitale che è ricordato nel mio libro? Gesù non riceve alcuna risposta e alcun segno dal Padre. Nessuna voce interiore lo induce a evitare l'arresto o a cambiar posizione durante il processo dinanzi al Sinedrio e poi dinanzi a Pilato, per ottenere un più mite verdetto.
Il significato di questa fermezza della vittima sacrificale dipende dal fatto che Gesù ha impostato tutta la sua predicazione sul suo ruolo di Salvatore, per il bene comune vuole ricostruire l'Alleanza tra Dio e il popolo di Dio e lo strumento è assumere su di sé i peccati del mondo. Questo compito «morale» può esser sopportato da un uomo o da un dio incarnato soltanto se la gratificazione che egli ne riceve è maggiore dei tormenti e della morte che lo attendono. Io penso questo. E questo dice anche Platone quando racconta di Socrate che, rifiutando di evadere dal carcere, beve la cicuta per affermare il principio del rispetto della legge per ingiusta che sia. La gratificazione per un dovere compiuto supera la sofferenza che ne deriva. Se non la supera, quel dovere sarà abbandonato e la sofferenza sarà evitata.
Torniamo al mio assunto quando scrivo che il fondamento della politica è la volontà di potenza. Essa è l'espressione più elementare e autentica dell'Io. L'Io nasce per affermarsi, sopravvivere, espandersi, conquistare ricchezze, territori, anime. Insomma potere. Talvolta si pone il fine del bene comune ed è il livello alto e nobile della politica. Ma poiché la visione del bene comune è pur sempre soggettiva, esso sarà perseguito e attuato da chi l'ha pensata e concepita. La volontà di potenza è dunque il motore della politica sia quando opera nei gironi inferiori sia quando si innalza verso la soglia della moralità.
Perfino le grandi religioni occidentali si muovono sull'asse della volontà di potenza. Vogliono convertire le genti alla propria verità. Non c'è bisogno del filo delle spade (che pure in tante occasioni è stato usato): anche nella predicazione missionaria e nel martirio esemplare splende un frammento della volontà di potenza. Possiamo coniugarla con il senso della convinzione e con quello weberiano della responsabilità; alla base resta la volontà del politico di attuare la sua visione del bene comune che marcia sulle proprie gambe e sulle proprie spalle. La sola differenza — peraltro essenziale — è tra chi agisce per il bene comune e chi per il bene proprio. Ma il secondo in quanto sentimento permane nel primo.
Ti ringrazio, caro Magris, per l'attenzione critica con la quale hai letto il mio libro e per le questioni e le domande che mi hai rivolto stimolando alcuni chiarimenti che sono per me ulteriori atti conoscitivi. Accade di rado che uno scrittore conversi con un altro di problemi che riguardano il senso della vita. Sembra un argomento da evitare. Noi qui l'abbiamo affrontato. Mi sembra un fatto positivo e te ne sono grato.