|  | Lamayuru 
Ovvero come l'ingordigia e 
la stupidità di un abate riescono a rovinare un gompa 
La strada asfaltata corre un centinaio di metri a 
monte dell'abitato di Lamayuru e sul fondo valle si scorge la vecchia pista che 
si snoda fra decine di chorten sovrastati dal monastero. Una nuova diramazione 
scende fino al monastero oppure si prosegue fino alla rest-house, punto di sosta 
per camion ed autobus (qui nell'84 è avvenuto l'unico scontro a fuoco fra locali 
in cui sono stati coinvolti dei turisti) e poi si scende per un largo sentiero 
verso i templi ed il villaggio. Numerose abitazioni sono state trasformate in 
alberghetti dal nome pretenzioso ed altri sono in costruzione. 
  A 
Lamayuru vivono circa 500 Ladakhi e sul fondovalle si trova un boschetto dove si 
può campeggiare. Seguendo il sentiero sulla riva sinistra (non sempre vi è acqua 
nel torrente) dopo alcune centinaia di metri si scorgono alcuni chorten sulla 
riva destra all'inizio di una valletta laterale; risalendola si giunge in due 
ore al Prikiti-La (m 4098) ed in altre due ore al monastero fortificato di Wanla. 
Sebbene il percorso sia faticoso e privo di acqua la discesa nella gola sabbiosa 
è un'esperienza affascinante e l'escursione a Wanla è divenuta una tappa 
entusiasmante per molti turisti. Lamayuru è la corruzione del nome
Lama-Yung-Drung (la svastica del lama), questa denominazione nascerebbe 
da un'antica leggenda sulla santità di questo luogo. Nell'antichità quassù si 
estendeva un lago abitato dai Naga:
 uomini serpente che nuotavano nelle acque limpide 
e cristalline fin dai tempi di Sakyamuni (il culto dei Naga pare sia di origine 
kashmira e molte leggende legano questi semidei a momenti della vita del Buddha; 
leggende simili sono raccontate sull'origine delle valli del Kashmir e di 
Kathmandu). Il saggio arhat Madyantaka evocò forze sovrannaturali per 
prosciugare il lago e profetizzò la fondazione di un convento. I grani di 
frumento che aveva gettato sulle onde, tornati a riva, crebbero disponendosi in 
forma di svastica, segno di prosperità.
 La fondazione del monastero è attribuita Naropa 
che vi soggiornò in un eremo, ma questa è probabilmente un'elaborazione dei 
monaci «berretti rossi» che occuparono il convento in tempi recenti. Il 
lamasterio appartiene ai Digung-Kagyu (Bri-Cung-Pa), ordine che risale ai 
maestri Tillopa e Naropa. Sicuramente alcuni edifici vennero costruiti ai tempi 
di Rin-chen-bzang-po, che sotto gli auspici dei re ladakhi, fondò ben 108 luoghi 
di culto!
 
  Jigten 
Gonpo (1143-1212) elevò l'attuale complesso di edifici su uno sperone di roccia 
che sovrastava la strada carovaniera e gode dei raggi del sole dall'alba al 
tramonto. Originariamente vi sarebbero stati cinque complessi ma ora ne  
rimane uno solo; ad occidente si trovano altri ruderi. Francke accenna ad una 
preesistente. cappella di rito bon-po di cui attualmente non rimane alcuna 
traccia (pare sia stata abbattuta nel 1971). Nel 16° secolo il monastero fu 
dichiarato zona franca con diritto d'asilo per i criminali e da allora è 
conosciuto anche come Tharpa-ling (luogo di libertà). Dei quattrocento monaci 
che qui risiedevano ai tempi di maggior splendore del convento ne rimanqono solo 
una ventina sotto il controllo di Togdan Rimpoche del monastero di Phyang, ma 
spesso sono assenti poiché inviati nelle vicine vallate. I raccolti dei campi ed 
i proventi del gompa non sono, infatti, sufficienti al mantenimento della 
comunità e quindi sono stati fondati numerosi piccoli conventi, con uno o più 
monaci, presso i villaggi della zona. Le donazioni dei fedeli integrano i 
proventi dell'agricoltura secondo un sistema di dipendenza tra monastero 
principale e conventi minori che è diffuso in lutto il Ladakh. Le occasioni di 
raduno per i monaci sono date dalle cerimonie religiose e dalle due grandi feste 
che cadono nel secondo e quinto mese del calendario tibetano. 
La visita
Dalla piazza del monastero, sovrastata dall'inutile e 
mostruoso albergo voluto dall'abate, ci s'incammina ai templi 
tenendo alla destra gli appartamenti e le cucine. 
  Alla 
sinistra, più in basso della strada, si trova il Chenrezi lhakang, tempio 
dedicato ad Avalokiteshvara: la grande immagine di questo Bodhisattva, 
raffigurato nella forma con mille braccia, è circondata da altri otto 
Bodhisattva e da piccoli chorten che originariamente erano d'argento; 
all'interno scena della vita di Buddha e dipinti di Avalokiteshvara. Giunti 
all'edificio principale, troviamo due portali, uno che guarda verso nord ed uno 
verso est. Si passa così nel cortile e si salgono i gradini del portico 
affrescato con le figure dei quatto guardiani e si entra nel
dukang Chenmo; la principale sala di culto è divisa in tre navate da 
alcuni pilastri ed è stata interamente ridecorata con pitture e tangke nuove che 
brillano per la vivacità dei colori, alcuni ritratti di grandi maestri della 
linea kagyu sono appesi sulle pareti negli spazi fra i volumi della biblioteca. 
Sul muro di destra si trova una piccola grotta conosciuta come «eremo di 
meditazione di Naropa», contenente la statua del santo e quelle di Marpa e 
Milarepa. Sulla parete di fondo un porta da accesso alla piccola cappella 
retrostante. In una grande vetrina sono conservate le statue di numerose 
divinità ed importanti Rimpocé. Il monaco che vi accompagna forse saprà 
indicarvi i nomi. 
  Tornati 
nel chiostro, una rampa di scale strette conduce alla balconata superiore dove  
si trova il Gombo gonkang con alcune rappresentazioni delle divinità 
tutelari ed alcuni piccoli chorten: un altra rampa di scale conduce all'appartamento 
del superiore del convento. Dall'edificio principale fatevi accompagnare al 
Singe-Kang: Usciti dalla porta secondaria del cortile si percorrono i 
corridoi posti nelle fondamenta del monastero, si attraversano viottoli sotto 
volte pericolanti e si scende fra la e case fino alla cappella in un edificio 
non ancora restaurato. È stupefacente l'incuria dei monaci per questo tempietto 
che è oggetto della venerazione dei fedeli e della curiosità dei turisti. La 
cappella è dedicata al Buddha Supremo Vairocana fra i cui simboli è il leone (da 
qui il nome di «tempio del leone»). Il culto risale ai tempi di Rin-Chen-Zang-po, 
appartenente ai Kadam-pa, ordine molto rigido nell'osservanza delle regole della 
vita monastica, L'immagine di Vairocana è rappresentata assisa su un trono dalla 
forma di leone; un garuda. mitico uccello indù, ed una coppia di makar, mostri 
marini, formano una volta sopra l'aureola della divinità. Sulle pareti si 
riescono a decifrare gli affreschi di Avalolokitshvara con undici teste, un 
mandala con Vairocana. alcune divinità protettive ed una serie di piccoli quadri 
che raccontano la vita di Sakyamuni:, simili a quelle del Somar lhakang di Alchi. 
A destra si entra in un secondo gonkang che ospita come divinità tutelari tre 
interessantissime sculture  in argilla raffiguranti Mahabal Bhattazaka. 
Mahakali e Sambhara. Le statue sono a grandezza d'uomo ed impressionano 
visitatori e fedeli nella tenue luce delle candele votive: orride sembianze, 
volti digrignanti. occhi spiritati. corna e sciabole, colpisce oltretutto il 
colore vivace del rosso sanguigno dei dharmapala, i difensori della legge, il 
cui culto risale ai Bön-po. Essi entrarono nel pantheon lamaista in un 
sincretismo di fede e. superstizione. Il ricorso alla loro protezione è avvenuto 
in ogni momento drammatico della vita del paese queste stame, per esempio, 
furono modellate al tempo delle incursioni di Mir Mazid, sconfitto nel 1517 dopo 
massacri e lotte cruente. Sulle pareti della cappella sono dipinti alcuni 
scheletri Sono i «guardiani dei cimiteri» ed è una curiosità non rilevabile in 
altri templi.
 Presso la strada asfaltata, proprio sopra il 
monastero, è stato costruito pochi anni fa un nuovo complesso di celle ed 
edifici sacri.
 
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