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27/07/2024 04:19:58

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Un pellegrino ad Angkor

Loti Pierre


Editeur - Casa editrice

O barra O

Asia
Estremo Oriente
Cambogia


Anno - Date de Parution

2012

Pagine - Pages

112

Titolo originale

Un Pèlerin d'Angkor (1912)

Lingua originale

Lingua - language - langue

italiano

Edizione - Collana

Occidente_Oriente

Traduttore

Maurizio Gatti


Un pellegrino ad Angkor Un pellegrino ad Angkor  

Mai pubblicato prima d'ora in Italia, questo diario di viaggio di Pierre Loti segna l'ingresso di Angkor nella letteratura occidentale. Emozioni personali, immagini di grande forza evocativa e incomparabili descrizioni alla ricerca della mitica città khmer.
Ancora ragazzo, Loti scopre il maestoso tempio di Angkor su una vecchia rivista coloniale e ne resta affascinato. Anni dopo, nel 1901, una spedizione lo condurrà in pellegrinaggio nei luoghi dei suoi sogni d'infanzia. Durante l'avventuroso viaggio verso la mitica città khmer, lungo il corso del Mekong, i villaggi e le foreste cambogiane, Loti annota impressioni ed emozioni, ritraendo con vivide descrizioni la realtà che via via gli si svela. Le pagine di Loti, pervase dal sentimento di stupore e soggezione che la magnificenza delle antiche rovine suscita in lui, trasmettono la sua certezza di trovarsi in un paese dove sopravvive ancora una cultura preziosa e raffinata. Connotato da un forte potere evocativo, questo diario è ancora oggi in grado di far rivivere al lettore la meraviglia della scoperta.

 



Recensione in lingua italiana

"Nella penombra arriviamo alla “Porta della Vittoria”, che prima ci è parsa l’entrata di una caverna. È sormontata da mostruose raffigurazioni di Brahma nascoste dal groviglio di radici e, su ciascun lato dentro una sorta di nicchie, da statue di elefanti a tre teste seminascoste dal fogliame. Attraverso questa porta coronata da tenebrosi volti entriamo in quella che fu una città immensa. Bisogna sapere che all’interno delle mura la foresta si prolunga, ugualmente oscura e fitta di alberi secolari. Lasciamo i carretti per continuare a piedi su sentieri appena tracciati, piste di animali selvatici. Come guida ho il mio interprete cambogiano, un esperto di queste rovine; mentre lo seguiamo, il rumore dei nostri passi si smorza nell’erba e non udiamo che il silenzioso scivolare dei serpenti, la furtiva fuga delle scimmie.

Dappertutto appaiono irriconoscibili rovine architettoniche, mescolate a felci, cycas, orchidee, a una flora infinita che, nell’eterna penombra, fa mostra di sé sotto la volta dei grandi alberi. Una moltitudine d’idoli buddici, piccoli, medi e grandi, seduti su troni, sorridono al nulla; tagliati nella pietra dura, sono rimasti ciascuno al proprio posto anche dopo il crollo dei templi, che dovevano essere in legno scolpito. Quasi di continuo, pii pellegrini costruiscono ripari in paglia per proteggerli dai temporali, bruciano incensi e portano fiori. Ma nessun bonzo abita nei dintorni, a causa della “febbre dei boschi” che non permette di dormire sotto la spessa coltre delle cime verdi, e quindi li si lascia trascorrere la notte in solitudine, anche nel periodo dei grandi pellegrinaggi. Ecco dove sorsero i palazzi, ecco dove vissero quei sovrani incredibilmente fastosi di cui non si sa più nulla, che sono passati nell’oblìo senza lasciare nemmeno un nome inciso sulla pietra o nella memoria. Sono costruzioni umane queste alte rocce che oggi sono tutt’uno con la foresta e che migliaia di radici avviluppano come piovre. Anche nelle piante si annida la tendenza ostinata a distruggere.

Il Principe della Morte, che i bramini chiamano Shiva, colui che ha creato per ogni animale lo speciale nemico capace di divorarlo, per ogni creatura i suoi microbi roditori, sembra abbia previsto, sin dalla notte dei tempi, che gli uomini avrebbero tentato di allungarsi la vita costruendo cose durevoli; allora, per invalidare i loro manufatti, ha creato, fra i mille agenti distruttori, la parietaria e, soprattutto, il “fico delle rovine” cui nulla resiste. È lui che oggi regna su Angkor. Sopra ai palazzi e ai templi che ha pazientemente disgregato, il “fico delle rovine” dispiega trionfante la sua pallida ramificata ossatura, maculata come i serpenti, e l’ampia cupola di foglie. All’inizio non era altro che un piccolo seme portato dal vento su un fregio o in cima a una torre. Poi, quando ha cominciato a germogliare, le radici si sono insinuate fra le pietre, come sottili filamenti, sicuro. E non appena incontrato il suolo, velocemente si sono nutrite di ricca linfa sino a diventare enormi, sconnesse, sino a disequilibrare tutto e aprire le spesse mura dall’alto in basso: allora gli edifici sono crollati, senza scampo. La foresta, sempre la foresta, e sempre la sua ombra, la sua sovrana oppressione. La si sente ostile, cruenta, portatrice di febbre e morte. Si vorrebbe evaderne, ma lei imprigiona, intimorisce… Poi, quei pochi uccelli che stavano cantando, tacciono di colpo. Cos’è quest’improvvisa oscurità? Non è certo l’ora. Deve esserci qualcos’altro lassù, oltre la vegetazione, che rende i sentieri così scuri… Un tambureggiamento sulle foglie, uno scroscio diluviale! Stando sotto gli alberi non ci siamo accorti che il cielo si è oscurato all’improvviso. L’acqua si riversa su di noi a torrenti, ci ripariamo di corsa sotto il tetto di paglia di un Buddha addormentato. L’ospitalità forzata del dio dura a lungo, ed è molto triste essere ancora là al calar del giorno, in mezzo al misterioso sottobosco."


Biografia

(Rochefort sur Mer 1850 - Hendaye 1923) Diplomatosi all'Accademia Navale di Brest, affiancò nei 43 anni di Marina militare un'intensa attività di scrittore di romanzi e libri di viaggio in cui descrive magistralmente la cultura dei più lontani paesi conosciuti in missione (specialmente Medio ed Estremo Oriente). Nel 1891 divenne il più giovane membro dell'Académie française. Fu letto e apprezzato da Nietzsche, Proust e Van Gogh.