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Gli editti di Asoka

Asoka


Editeur - Casa editrice

Adelphi

  Asia
India



Città - Town - Ville

Milano

Anno - Date de Parution

2003

Pagine - Pages

123

Lingua - language - langue

italiano

Edizione - Collana

Biblioteca Adelphi


Gli editti di Asoka Gli editti di Asoka  

GLI EDITTI DI ASOKA (cur. Pugliese Carratelli G.)
Quando il sovrano governava nel segno della pace e della pietà

Chissà se un futuro governo del mondo avrà un «ministro della pietà»: struttura di potere incaricata di alleviare le sofferenze dei bisognosi e degli afflitti (è recente, tra l'altro, l'espressione «capitalismo compassionevole»...).
Nel terzo secolo avanti Cristo, ministri chiamati così erano al lavoro per conto dell'imperatore indiano Pyadassi, meglio conosciuto col nome di Asoka, per riscattarsi dalle atrocità compiute nell'ultima sua guerra: 200 mila morti per l'annessione del Kalinga, regione sul golfo del Bengala. Questi ministri avevano il compito di diffondere nella popolazione princìpi e comportamenti «pietosi», di amministrare le elemosine, di verificare l'accoglimento delle suppliche, ecc.
Certo, «pietà» è un concetto che ha avuto, nei tempi e nei luoghi, un gran numero di significati e sfumature in intreccio filosofico-morale, religioso, civile. Basta accennare alla philantropía dei greci, alla pietas dei romani, alla carità e alla misericordia cristiana. Ma in ogni versione sono evidenti semi comuni o quasi. Dalla «coscienza dell'altro» alle diverse forme di solidarietà. Pyadassi, convertitosi al buddismo, considera la pietà «assenza di peccato, abbondanza di opere buone, sincerità, purezza».
Una virtù suprema, centrata sull'assoluto dominio di sé, che cominciava a rifulgere dappresso: nell'obbedienza ai genitori, nella cortesia verso i sottoposti, nel rendere onore ai maestri e, addirittura, ai loro parenti. Precetto fondamentale era la non-violenza verso ogni «essere animato», dal rinoceronte alla formica. Per la mensa regale, in un primo tempo, era permesso uccidere due pavoni e una gazzella; poi vennero risparmiati pure questi aniMali, perché «un vivente non deve nutrirsi con un vivente».
Gli editti di Asoka-Pyadassi, ora usciti da Adelphi a cura di Giovanni Pugliese Carratelli, sono rimasti per secoli nell'ombra. Come le vicende di quel regno, tanto che i due nomi del sovrano non combaciano da molto.
Il giovane Asoka, «senza dolore», divenne Pyadassi, «dal gentile sguardo», quando salì sul trono di Magadha (così si chiamava il nucleo forte indiano) verso il 272 a.C. dopo aver assassinato il fratello, succedendo al padre naturale, a sua volta figlio del fondatore della dinastia Maurya: quel Candragupta che, secondo la leggenda, convinse Alessandro Magno a non spingersi oltre il Gange. Il sovrano «pentito» ordinò che i suoi editti venissero scolpiti sopra rocce e colonne nel vastissimo dominio che comprendeva l'India attuale senza il triangolo meridionale, estesa verso est fino al Bangladesh e al Nepal, nonché fino all'Afghanistan verso Nord. Scolpiti perché durassero «quanto il sole e la luna» e ricordassero a figli e nipoti che «mitezza e clemenza» sono preferibili a nuove conquiste: la «gloria delle armi» o la «rinomanza» non portano grande profitto. Se i discendenti seguissero con vero zelo la lezione è almeno dubbio. Una serie di invasioni, però, ridusse presto l'impero in briciole.
Nonostante i tentativi di penetrazione in aree ellenistiche, si favoleggia pure di una nonna greca, figlia di un generale di Alessandro, Asoka non riuscì a esportare il suo messaggio morale e civile (se si esclude l'interesse culturale di alcune corti vicine). A causa delle venature buddiste? Forse. Occorre tuttavia sottolineare che l'imperatore, «devoto laico», sembra estraneo al proselitismo. In un editto rupestre afferma: «Il progresso reale ha forme diverse, ma la sua radice è la moderazione nell'esaltare la propria religione come nel criticare l'altrui». E aggiunge che la mancanza di rispetto per le altre religioni ingiuria anche la propria. Negli Editti di Asoka (questo il titolo del libro, che ne raccoglie una trentina ben annotati) emerge un'arte di governo rivolta alla pace e sollecita verso i Sudditi. Con energico decisionismo. «Quello che io considero giusto voglio che sia attuato» ingiunge il sovrano, che preordina severe e periodiche ispezioni nella burocrazia che amministra lo sterminato territorio.
I magistrati sono avvertiti: qualora cadano nell'irascibilità e nell'impazienza, per non dire nella pigrizia, perdono sia il favore celeste che quello dell'imperatore. Una particolare attenzione, nelle direttive ai dignitari d'ogni rango, è messa nel risanamento delle ferite provocate dai conflitti: «Il re perdonerà quanto si può perdonare». Non mancano leggi curiose. Ai condannati a morte è concessa una dilazione di tre giorni. Nel frattempo, i parenti sono autorizzati a intercedere per scongiurare la pena capitale. Se nessuno intercede, i condannati «potranno dare elemosine pensando all'altro mondo». Pyadassi, che in ogni editto si autodefinisce «caro agli Dei», dispone di essere ragguagliato momento per momento intorno ai pubblici affari di maggior rilievo o urgenza. Ovunque sia: perfino nei luoghi sacri o nel gineceo.
Per far correre le notizie dai più remoti angoli dell'impero, attraversato da rare strade fangose, era stato allestito uno speciale corpo di «informatori», secondo solo ai ministri. Peccato che allora non ci fossero i telefonini, così immediati e intrusivi.
Da "la Gazzetta del Sud"
(mercoledì 5 marzo 2003)